FEUERFEST

FEUERFEST !

“Feuerfest!” è il titolo di una Polka francese scritta nel 1869 da Josef Strauß (1827-1870) in occasione della vendita della ventimillesima cassaforte in ferro di un’azienda viennese. Come effetto particolare, e come dedica al mestiere del fabbro, durante tutta la composizione si sente risuonare ritmicamente una incudine.

C’ERA UNA VOLTA (E C’È ANCORA) UN’INCUDINE

Vi state chiedendo come sono finita in mezzo ad un’Orchestra Sinfonica contornata da ragazzi che hanno quasi 100 anni meno di me?

In effetti io non sono una tipa da teatri o sale da musica, io vengo da una bottega da fabbro, anche se negli ultimi 40 anni ho sonnecchiato vicino ad un caminetto, accanto ad un martello posato placido al mio fianco.

Incudine usata durante l’esecuzione di Feuerfest

Incudine usata durante l’esecuzione di “Feuerfest!”
al concerto del 17 novembre 2023

“Storia di un’incudine francese: tradizione fabbraia e ferri per cavalli”

Visto però che mi hanno portata alla ribalta mi sembra doveroso presentarmi: sono un’Incudine, un attrezzo usato dal fabbro – mestiere ormai dimenticato – per la lavorazione del ferro.
Sono nata nel 1912 in Francia, in Borgogna, negli stabilimenti A. Perrin di Til-Châtel (Rue de la Forge, mica scherziamo); come poi sia finita alla Fabbreria, piccolissimo borgo di Bentivoglio, è un mistero, ma nella mia stessa bottega c’era anche un’altra incudine, un bel po’ più grande di me e per questo più professionale ed altezzosa (sfido, lei stava immobile e fissata ad una zocca di legno). Anche lei era francese; veniva dalla Loira, dalle Usines Firminy AFY.
Due incudini francesi alla Fabbreria di Bentivoglio, mah. Forse eravamo là per la nostra forma perfetta, per la qualità del materiale con cui siamo fatte, o forse chissà perché, di sicuro non è rimasto nessuno a cui chiedere, per cui la storia ve la racconto io.

Incudine Firminy con mazza
La protagonista, l’incudine A.Perrin 1912, assieme ad altri attrezzi del fabbro

“Un viaggio nel tempo tra incudini e fabbrerie: i De’ Maria”

Cent’anni fa la nostra era una bottega di famiglia, i De’ Maria, ed i fabbri che ci lavoravano erano 3 fratelli che avevano come assistenti i 2 figli del fratello maggiore, capo-bottega in quanto primogenito. Nella loro famiglia fare il fabbro era una tradizione, già 5 generazioni si erano avvicendate portando avanti quel mestiere fra San Marino e Saletto e prima ancora a Lovoleto o forse a Ca’ de’ Fabbri.
Cinque generazioni per un totale di almeno 12 fabbri della stessa famiglia, tutti sempre impegnati in una “Fabbreria”; ce ne erano tante all’epoca e a guardare con attenzione la cartina geografica, diverse sono rimaste nei nomi di località, fermate di autobus o trattorie.
Una volta, in ogni paese, vicino alle stazioni di posta o dove c’era un’osteria o una locanda, c’era sempre almeno una Fabbreria. Solitamente di fianco al fabbro c’era anche il falegname affinché i carri potessero essere riparati contemporaneamente alla ferratura del cavallo.

Nella bottega del fabbro c’era la fucina, una specie di camino in cui ardeva il fuoco di carbone. Posto sulla fucina, il ferro diventava prima rosso, poi arancione, poi giallo e infine bianco. Quando il colore era giallo-bianco il ferro era alla giusta temperatura per essere malleabile e lavorato; veniva allora modellato sull’incudine a colpi di mazza e martello, piegato e sagomato con le pinze per prendere la forma desiderata.

Noi due incudini stavamo insieme solo alla notte, in bottega, perché di giorno io mi spostavo, stavo all’esterno sotto al portico oppure andavo via con il fabbro. Ero quella piccolina, pur con i miei 34 kg di peso. Lei (l’altra) rimaneva dentro alla bottega, nella buia e fuligginosa fucina, rischiarata ogni tanto dai bagliori delle braci e dei ferri arroventati.

Piccola sezione di vecchia cancellata costruita nel 1926
Particolare di una foglia della cancellata

“Fabbri e incudini: l’arte della lavorazione del ferro nel passato”

Il lavoro richiedeva capacità professionale e impegnava molto anche dal punto di vista fisico. Quei tre fabbri più anziani, fratelli fra di loro e quasi cinquantenni all’epoca, amavano dar sfoggio della loro arte e professionalità battendo ritmica-mente, ed a tempo fra di loro, con i suoni ora cupi ora argentini dei martelli, fra le scie luminose delle scintille.
Dicevano che fosse uno spettacolo vederli e starli ad ascoltare…
I fabbri costruivano gli oggetti usati dai contadini nelle campagne: zappe, picconi, falci, vomeri per gli aratri, anelli di catene e catenacci, ma anche piccoli oggetti per la cucina, serrature per porte e chiodi di tutti i tipi, inferriate e ringhiere e pure elementi più nobili come cancellate per le chiese.
Ma il lavoro che mi piaceva di più erano i ferri per i cavalli. Era un’operazione quasi quotidiana quando l’unico mezzo di locomozione era il carro trainato dai cavalli, asini e muli.
Il fabbro, da un pezzo di metallo, sapeva ricavare a forza di fuoco, martello e incudine dei ferri perfetti su misura, su misura perché ogni animale aveva le sue caratteristiche e le sue esigenze; i ferri erano “le scarpe” indispensabili affinché gli equini potessero camminare a lungo senza consumare lo zoccolo.

Interno del portone della bottega con ancora gli appunti scritti a gesso sul legno
Serratura e chiave del portone della bottega del fabbro
Intestazione nota di conto del 1920

Ricordo ancora le due pareti della bottega coperte di ferri già pronti, accoppiati a due a due sullo stesso chiodo. Ogni coppia diversa dalle altre, c’erano i ferri anteriori e posteriori, quelli da ghiaia e quelli da ghiaccio, quelli da cavallo da traino, da cavalcata, ma anche da asino e da mulo. I puledri no, quelli correvano sferrati sui prati.
C’erano talmente tanti ferri che nessuno riusciva mai a contarli. Chi diceva 200, chi diceva 300. Ma non c’era tempo da perdere a fare gli inventari, di giorno si lavorava duramente in fucina e dopo cena si ferravano i cavalli che fuori in fila nitrivano impazienti perché volevano tornare nella loro stalla.

Tempi ormai andati, quei fabbri e le loro Fabbrerie sono solo ricordi sbiaditi di un mondo che fu; sono rimasta io e oggi per un attimo farò riecheggiare quei colpi e quei suoni dimenticati.
A proposito, mi hanno detto che la mia nota è un fa diesis calante, tenetelo a mente qualsiasi cosa questo voglia dire.

Anna Maria Demaria